MADRIDIARIO

Racing_MadridParte terza

La leggendaria parabola del Racing Club de Madrid, il club che fece tremare il Real Madrid.

Di Francisco Bru, detto Paco, si sa che nacque il 12 aprile 1885, a Madrid o forse nelle Filippine e morì a Malaga il 10 giugno del 1962, con più certezza. Nel mezzo, una vita a dir poco avventurosa, come in fondo lo erano un po’ tutte, una volta. Salgariana, romanzesca. Una novela legata alle pionieristiche origini del football. Allo sbarco, nel porto di Barcellona, di uno sparuto gruppo di giovanotti inglesi seriamente intenzionati a diffondere capillarmente il prezioso contenuto del loro bagaglio: una raccogliticcia e irregolare sfera di cuoio. Paco Bru è poco più che un bambino e si sente pronto a raccogliere la sfida. Soprattutto, non resiste al fascino di quella intrigante neonata disciplina sportiva. Un fascino del quale, a breve, non solo la penisola iberica ma l’Europa e il mondo intero ne sarebbero rimasti stregati. Il tramonto del secolo XIX e i primi vagiti del Novecento vedevano già la fondazione di diversi club che in futuro avrebbero scritto la storia del calcio. Intanto, gli albori si stavano rivelando tremendamente complicati, con la gestazione di un conflitto mondiale che di lì a poco esploderà. All’epoca, Paco Bru aveva alle spalle una più che onorevole carriera di difensore, roccioso e insuperabile, divisa tra le maggiori compagini di Madrid e Barcellona. Dunque, il mito incrollabile del clásico per eccellenza prende forma in quei tormentati tempi. Più o meno contemporaneamente al gesto irreparabile di Gavrilo Princip, l’anarchico serbo che il 28 giugno del 1914 a colpi di pistola giustizia l’arciduca Ferdinando, ereditario al trono dell’Impero Austro–Ungarico, e sua moglie Sofia, Paco Bru si ritira dal calcio giocato. Solo per entrare nella leggenda; la sua personale e di quella breve incredibile e maledetta del Racing Club de Madrid.

Intraprende così una poliedrica carriera di giornalista, arbitro, terzino occasionale e allenatore. Ovunque ha lasciato un segno indelebile, fatte salve le inevitabili crepe dell’oblio. Memorabili pertanto le sue performances in ognuna delle dimensioni in cui si sono rivelate; ha fondato e diretto testate sportive, ha arbitrato partite al limite del regolamento, per usare un eufemismo – “Possiamo fare due cose: o finiamo il match un altro giorno o domani più di qualcuno finisce nei necrologi”, un suo famoso avvertimento sfoderando il revolver, opportunamente caricato prima di scendere in campo -, ha lasciato penna e taccuino in tribuna per indossare la divisa azulgrana dell’F.C Barcelona de Alcántara nel ritorno della semifinale di Coppa contro il Real Madrid de Bernabéu, nello stadio dell’Atletico, dovuto al ritardo del treno su cui viaggiavano due giocatori catalani. Nel suo lungo e variegato curriculum spicca anche la partecipazione in un circo nel ruolo di “forzuto”, qualità per altro sfoderata presidiando la linea di difesa nelle molte battaglie sul rettangolo verde. È però sulla attività di allenatore che concentreremo l’interesse, a partire dall’imprescindibile debutto. Una “Prima” in tutti i sensi, potremmo dire. Tra maggio e giugno del 1914 infatti, mentre appendeva gli scarpini al fatidico chiodo, accetta di guidare la rappresentativa femminile spagnola: lo Spanish Girl’s Club. Chissà una novità assoluta in tutto il mondo. Una esperienza che si concluse nel giro di pochi mesi, per la ingombrante “anomalia” che comportava e per le conseguenti difficoltà nel reperimento di avversarie e nell’organizzazione delle gare. Nonché a causa del conflitto che stava dilaniando l’intero continente, un dettaglio non proprio secondario. Tuttavia, il destino da C.T. di Paco Bru era pressoché segnato, e dopo lo zoppicante battesimo sarebbe arrivata la meritata consacrazione. O per lo meno, il riconoscimento ufficiale di una figura tanto “stravagante” quanto ineccepibilmente molto preparata. Al punto di guadagnarsi la guida della selezione spagnola ai Giochi Olimpici del 1920 ad Anversa, in Belgio. Da quella problematica partecipazione, tra la mancanza di divise di risorse economiche e finanche di un dignitoso campo per gli allenamenti, tornarono con una medaglia d’argento. E con una folla festante ad attenderli alla stazione di Madrid. Il focoso adolescente di fine Ottocento, che aveva visto vissuto e interiorizzato l’epifania del football, stava per diventare una icona della modernità. Peripezie e traversie, che già abbondavano, in futuro non scarseggeranno; si sarebbero trasferite solo a una decina di migliaia di chilometri, sull’altra sponda dell’Oceano. In America Latina avrebbe conosciuto gloria e stenti, in una realtà e in un periodo storico dove i capovolgimenti politici e sociali avvenivano con una velocità forse maggiore che nel resto del pianeta. D’altronde, a qualsiasi latitudine, quello scorcio di Novecento non lesinava certo sorprese. Spesso violente e sanguinose, preludio a ulteriori tragedie che non tarderanno a sopraggiungere sotto forma di guerre mondiali di genocidi e totalitarismi. Il Secolo Breve era in pieno svolgimento. In ogni caso, il vulcanico Bru si destreggia tra Cile Argentina e Perù, traccia le sue rotte sugli affascinanti versanti delle Ande e le distese immacolate della Pampa, o sullo splendore caraibico dell’isola di Cuba. La Federazione di Lima lo richiamò per condurre la nazionale peruviana alla prima edizione dei Mondiali di calcio, che si sarebbero disputati in Uruguay, nel 1930. Accettò l’incarico, e non poteva essere altrimenti, sebbene disponesse di pochissimo tempo per prepararsi a un evento così significativo. Ciononostante, riportò un risultato dignitoso, uscendo sconfitto di misura dalla selezione di casa che poi si aggiudicherà la competizione. Fece ritorno in patria, ma la vuelta latinoamericana fu un provvidenziale anticipo di quanto accadde in seguito, ritrovandosi quasi per caso a Madrid sulla panchina del Racing de Chamberí.

Paco_Bru

Ramón Teja e Salvador Picazo, presidenti rispettivamente dell’Instituto Cardenal Cisneros e del Regional Football Club, decisero di sciogliere le due società sportive per unirle sotto un unico stemma: il Racing Club de Madrid. La fusione ebbe luogo nel quartiere periferico di Chamberí, oggi zona rinomata e benestante nel quadrante sudest della città. Era il 13 settembre del 1914. I colori sociali prescelti saranno il rosso e il nero. La neonata formazione non tardò a farsi valere nei campionati in cui gareggiò immediatamente successivi alla fondazione. E legò la sua sorte a Paco Bru, nel bene e nel male. Una sorte comune che fece coincidere la polvere di stelle e il fango del fallimento. Abbastanza per conquistarsi un posto nella Memoria. Ambedue epigoni di una preistoria moderna, di una umanità arcaica eppure inequivocabilmente attuale. Come le tante imprese sportive che ne riproducono un’altra ancor più impegnativa: quella di vivere. La fatica, lo sforzo continuo e le più disparate avversità da affrontare, il grado elevatissimo di difficoltà, la pura tecnica o la forza dei muscoli, l’astuzia l’agonismo la lealtà e l’onore delle armi, la sobrietà della vittoria e la dignità della sconfitta; è solo un elenco, per altro incompleto, dei requisiti richiesti per costituire quell’immaginario che noi definiamo “epica dello sport”. Evocano (forse con troppa disinvoltura ed enfasi, ammettiamolo) una dimensione mitica della storia del genere umano, risalente a un periodo d’oro in cui identifichiamo la competizione la lotta e l’antologia dello “spirito olimpico” con la plasticità classica del Discobolo di Mirone. Vale la pena sottolineare che la evocazione di quella età incontaminata e aurea, ammesso che sia davvero esistita, era già un lontano ricordo nei primissimi anni del secolo scorso. Le vicissitudini del Racing sfuggono probabilmente qualsiasi caratteristica assimilabile ad altri club, a esso contemporaneo antecedente o successivo. In particolar modo, per quel che riguarda l’epilogo della sua esistenza, sentenziato in maniera definitiva allo scoppio della Guerra Civile. Arrivarci però, è stata una parabola densa di eventi emozioni e sventure. Di piccoli grandi risultati raggiunti e di progetti faraonici mai portati a termine. A partire dalla rivalità con i potenti vicini del Bernabéu fino alla costruzione dello stadio che avrebbe dovuto ospitare la nascente e vincente squadra della capitale spagnola. Ai primi contesero quasi da subito la supremazia cittadina, e le testimonianze, oramai sbiadite dal tempo quando non definitivamente scomparse, riferiscono di partite degenerate in vere e proprie battaglie campali. Se sopravvivono ancora nella memoria collettiva, lo si deve a lavori encomiabili di ricerca e passione come quello di José Manuel Ruiz Blas, autore del libro “El último gol apache”*. O a coraggiose iniziative editoriali come quella di “Panenka”**. Il Racing, d’altro canto, era stato concepito precisamente per detronizzare la squadra di Madrid rappresentante della classe agiata; una “missione” condivisa dagli altri club allora esistenti, tra cui l’unico che ancora oggi persevera imperterrito nel suo ruolo, el Atletico. L’errore fatale della dirigenza fu quello di realizzare il sogno di un proprio stadio da far invidia a chiunque non fosse un chamberilero, come venivano chiamati i tifosi agguerritissimi del Racing. E di costruirlo non nel territorio di competenza, ma a Ponte di Vallecas, al lato opposto rispetto a Chamberí, per l’ampia disponibilità di terreno. Esattamente dove ora risiede la casa del Rayo Vallecano, il club madrileno di origini operaie rivendicate sempre e ovunque con orgoglio. Dal 1924, anno della sua fondazione, a tutt’oggi, militando nella massima divisione spagnola, la Liga. E anch’esso, altrettanto meritevole di essere ricordato e raccontato. L’opera era all’avanguardia, dal punto di vista architettonico e della funzionalità. Le complicazioni sorsero non appena l’impianto fu ultimato e inaugurato, nel 1931, per la lontananza allora siderale dalla sede originaria e per la strada fangosa e faticosa da percorrere per occupare le ambite gradinate. A poco a poco la tifoseria, fedele passionale e popolare e anche per questo con (ovvie) limitate risorse economiche, abbandonò l’idea in effetti un po’ folle di seguire dappertutto l’amato Racing. E a poco a poco trasferì la propria febbre antimadridista (non ancora Real) in territorio colchonero, dalla parte Atletico della barricata. I guai non finirono lì, erano piuttosto solo un cospicuo anticipo, e il colpo fatale non potevano riceverlo che dalle merengues, gli acerrimi avversari così chiamati per la loro divisa completamente bianca. Questi, resisi conto del reale pericolo proveniente dalla estrema periferia, sia per quel che riguarda la contesa sportiva che per l’ardore degli spalti divenuto già proverbiale, lanciano nei loro confronti un’accusa infamante che li metterà letteralmente fuori gioco. Depositano una denuncia alla Federazione per violazione dello spirito amateur della competizione; per parteciparvi, alcuni calciatori del Racing percepiscono uno stipendio. E questo è uno scandalo, non è tollerabile. Ebbene sì, ad accusarli è quel Real Madrid stellare, la società con una bacheca tale da creare imbarazzo (quasi quanto il loro armadio, chissà…) e che a un secolo di distanza si appresta a ufficializzare l’ingaggio di un giocatore, forse il più forte in circolazione ergo il più richiesto, a una cifra astronomica. Non ci soffermeremo ora sulla “questione morale” del football, ma quei tempi sembrano più lontani di quelli di Mirone. In tutti i modi, a superare la follia di costruire uno stadio con caratteristiche e costi fuori dalla norma e dalle loro possibilità, è la strategia ideata per recuperare i soldi investiti in quel mastodontico progetto. Oltreché resistere alla offensiva sferrata per eliminarli dalla mappa calcistica di Madrid. Ripescano così una suggestiva proposta del 1919, affascinante quanto poi si rivelerà nefasta; una tournée americana, da sud a nord, con la unica e dichiarata finalità di raccogliere fondi. Una serie di amistosos nei maggiori stadi del continente che avrebbero dovuto attirare folle osannanti e soprattutto paganti per alleviare lo stato comatoso in cui versavano le casse del club. Un piano ambizioso e ammirevole, se non fosse che a volte il realismo, per nulla magico in questo caso, può metterci lo zampino e mandare all’aria l’agognato obiettivo. A guidare la spedizione, a posteriori più un viaggio disperato della speranza, non può esserci che lui: Paco Bru.

Nel calcio moderno, ossia in quel ripugnante feticcio tardo-capitalista visceralmente odiato da noi sostenitori seguaci accaniti del romanticismo anacronistico e della età arcadica del football, le tournée colonialiste per divulgare il Verbo del Mercato, sono ormai la normalità. Le grandi istituzioni come le federazioni dei singoli paesi si affannano a trovare generosi sponsor tra le più che tollerabili tirannie del Golfo come nelle democrazie guerrafondaie dell’Occidente. Petrolio e dollaro continuano a dettare l’agenda della Economia mondiale, e le casse di FIFA e UEFA versano più o meno nelle stesse condizioni di quelle del Racing, nel momento in cui l’equipaggio capitanato da Bru salpa dalle coste spagnole puntando dritto su Panama. Peccato che andò tutto storto. Si ritrovarono in un Colpo di Stato in Perù, nel mezzo della sollevazione militare di Gerardo Machado a Cuba, mentre in Messico furono letteralmente presi a sassate e assediati da una folla inferocita. Passarono la notte in gattabuia, una volta liberati non demordono dal proposito originario e si dirigono a New York, confidando nel sogno americano. Trovano invece l’incubo di una sparatoria e i morsi inconfondibili della fame, a costo di una sospirata fama ormai irrimediabilmente lontana. Gli ultimi risparmi se ne vanno per l’acquisto di qualche indumento che dia loro un aspetto decente, pianificando un desiderato quanto mesto ritorno a casa. Dove, nel frattempo, il Racing è fallito. Un quotidiano spagnolo si prende la briga di immortalare in prima pagina lo sbarco e riportarne la cronaca, con i volti emaciati e i corpi stremati dentro vestiti troppo larghi. E lo sguardo, indeciso tra il sollievo e lo stupore, di chi è sopravvissuto a un naufragio. Inconsapevole di aver scritto una pagina indimenticabile di Umanità.
Una storia irresistibile, di antica dignità e di sconfitta esaltante, in un mondo in cui il culto della vittoria a tutti i costi ha oscurato l’autenticità della fede. Per questo, non smetteremo di fare il tifo per il Racing Club de Madrid.

M.A.

*: El último gol apache, José Manuel Ruiz Blas, ed. Debate
**: Revista Panenka http://www.panenka.org

 

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