IL COLLO CORTO DI LULA

Lula_3Lula da Silva il carcere lo ha già conosciuto. Durante la dittatura militare in Brasile. Il paese era tristemente allineato con le tendenze dominanti allora in quasi tutto il continente latinoamericano.

L’ondata di repressione proveniente da Washington avrebbe contrassegnato tutta la storia del Novecento. Governi fantoccio e soprattutto eserciti addestrati negli USA per sterminare e stroncare qualsiasi proposito di legittima sollevazione popolare. D’altronde, nel cortile di casa non si potevano permettere affronti simili. Risorse umane e naturali dovevano rimanere alla mercé della crescita infinita del Nord e al servizio della eterna colonizzazione del Sud.

Il popolo, quello vero in carne e ossa, non la inerte rappresentazione grafica degli indicatori economici, spesso non aveva scelta tra la fame e la lotta. Ambedue contemplavano lo stesso coefficiente di rischio di perdere la vita; ambedue contemplavano lo stesso coefficiente di dignità.

L’una e l’altra erano gli effetti scellerati di una chirurgica prassi del saccheggio. In una commistione tra loro quasi simbiotica, per l’ancestrale condizione di forzata subalternità, dalla Conquista in poi.

Se gli stenti però causati dal neoliberismo erano una condanna, la lotta per combatterlo si fece necessaria. Il subcontinente fu attraversato da una scossa rivoluzionaria che ebbe origine dalle guerre per la indipendenza per giungere alla decolonizzazione del secolo passato.

Da Simón Bolívar a Fidel Castro; da Tupac Amaru a Hugo Chávez.

La nascita e l’ascesa di Lula, come indiscutibile protagonista in questa traiettoria storica, si collocano precisamente in tale dimensione.

La instaurazione di regimi dittatoriali, sostenuti dalle oligarchie economiche e da forze armate dichiaratamente golpiste, è stato il segno particolare di un mondo diviso in due dalla Guerra Fredda e dalle iniqua concentrazione delle ricchezze. A un 1% vorace e insaziabilmente accumulatore, corrisponde un 99% spossessato di quasi tutti i diritti fondamentali e dell’accesso a un minimo umano di sopravvivenza. E la sopraffazione si fece sistema.

Di profitto economico e repressione sociale. A seconda della propria posizione geo-strategica nello scacchiere capital-finanziario. Tutti i paesi dell’America Latina hanno subito le conseguenze nefaste del profitto a tutti i costi.

Una Storia costellata di eroiche ribellioni e di dottrine sanguinarie e mortifere. Una lunghissima sequenza di ingerenze, invasioni, aggressioni e sottomissioni.

Un continente ricco costantemente alle prese con la povertà; costantemente in bilico tra un neocolonialismo che non lo abbandona e la mai abbandonata volontà di emancipazione.

Lula da Silva riscatta secoli di sconfitte trionfando nelle elezioni del 2002, dopo aver tentato per tre volte di far prevalere la sua candidatura. Una sfida che ricorda quella di Salvador Allende in Cile e che ha incoraggiato quella di Daniel Ortega in Nicaragua. Come a ribadire la tenacia propria di un figlio del popolo piuttosto che la ipocrita consuetudine del politico di professione.

Nonostante maggioranze ibride e alleanze troppo disinvolte, perché in seguito rivoltatesi contro, nonché turbolenti e tormentati episodi di corruzione in seno al PT, il popolo che in lui si è identificato non lo ha mai lasciato solo.

La dimostrazione è sotto i nostri occhi in questi giorni. La sua figura di leader operário, cresciuta e rafforzatasi nelle lotte sindacali delle decadi precedenti, ha finito per imporsi e per mettere paura alla élite brasiliana. Siano esse tradizionalmente latifondiste o servizievolmente militari. E alla fine, gliel’hanno fatta pagare. Una manovra orchestrata con la compiacenza giudiziaria e del Supremo Tribunal Federal, che ha negato finanche l’habeas corpus del reato contestatogli, e la complicità mediatica di colossi della disinformazione come la Rede Globo. Una strategia della destabilizzazione che assomiglia molto alla realtà venezuelana. Una versione aggiornata di tentazioni golpiste mai sopite in America Latina. Sebbene esistano e resistano ancora vecchie scuole di pensiero imperialista che seguitano a seminare terrore, in terre dimenticate e appetitose come l’Honduras.

Ma è piuttosto il contesto politico quello che appare più determinante e significativo. Le operazioni golpiste infatti, hanno avuto inizio due anni fa con l’impeachment a Dilma Roussef, anche lei vittima della persecuzione della dittatura instaurata da Goulart nel 1964, e l’insediamento illegittimo di Temer.

La ola progressista in America Latina, aldilà dei limiti e delle contraddizioni più o meno riscontrabili in tutte le esperienze dei singoli paesi che l’hanno generata, non può certo essere tollerata nell’era Trump e allo spirare di un forte vento revanscista e conservatore. Lula si apprestava a uscire vincitore dalla prossima tornata elettorale, ergo andava fermato con ogni mezzo a disposizione.

Ora è in carcere, come in quei lontanissimi anni bui di repressione e luminosi di resistenza. Per aver portato un popolo a essere più forte della rassegnazione.

Colpevole di lesa aristocrazia.

Mia madre mi ha fatto con il collo corto perché non la dovessi mai abbassare.”

Nostro compito è tenerla alta, insieme alle innumerevoli mani serrate in pugni che avrebbero voluto impedire si consegnasse a una giustizia vendicativa e rancorosa. Pugni chiusi che ora ne reclamano la liberazione. Come un solo grido di libertà con le voci di tutti i popoli che si riconoscono nella lotta di ognuno contro la mai spenta arroganza del dominio. Insieme a Lula.

M.A.

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